Leggendo “Furore” di John Steinbeck

Furore di John Steinbeck

“Furore” e l’anima dei libri

Cosa dice questo romanzo riguardo alla scrittura di oggi?

Avrei dovuto leggerlo prima, lo so. Furore di John Steinbeck mi ha colto di sorpresa tardi, ma c’era un motivo per cui non avevo intrapreso la lettura quando ero ancora una baldanzosa studentessa. È che io la subodoro, la sofferenza, ne ho il presentimento, e la mia emotività gravemente empatica è piena di cicatrici. D’accordo, forse è anche perché da piccola suppongo di aver visto la versione cinematografica con Henry Fonda. Ricordo poco, ma deve essermi bastata.

I segni del dolore non li accuso per qualsiasi narrazione, ma rimangono impressi di sicuro quando si tratta di verità storiche. Furore racconta quel che è realmente avvenuto, e fatti che oggi si stanno ripetendo uguali, purtroppo. Ancora più sofferenza scaturisce dalla consapevolezza che non abbiamo imparato, ma proprio niente: siamo tragicamente recidivi.

Prima di procedere a raccontarvi di Furore, vorrei promettervi che prima della fine vi spiegherò cosa può dire Steinbeck, secondo me, alla categoria degli scrittori (aspiranti, esordienti, emergenti o che dir si voglia).

Grapes of Wrath, tradotto con Furore da Bompiani, che lo pubblicò già nel 1940, un anno dopo l’uscita negli USA, racconta dei contadini americani che, nel mezzo della grande depressione degli anni Trenta, vengono cacciati con la violenza dalle banche che possiedono le loro terre, e non si curano dei loro interessi e delle loro vite. Volantini distribuiti in giro vantano l’abbondanza di lavoro agricolo in California e la famiglia Joad, insieme ad altre migliaia, attratta da quell’unica fiammella di speranza, carica tutto il possibile sull’autocarro e si sposta per strade lunghissime, adottando di forza il nomadismo. Quei volantini sono una bieca truffa pensata apposta per attirare disperati e, aumentando a dismisura la disponibilità di manovalanza, abbassare i costi del lavoro. La famiglia Joad scoprirà la solidarietà col resto del popolo in cammino, scoprirà la disumanità con cui la gente dello stato d’arrivo li considererà stranieri, mendicanti, facinorosi, ladri, persone indegne e sporche. Chiunque lotti per un giusto salario – almeno sufficiente alla sopravvivenza – verrà considerato un “rosso” e incarcerato e picchiato, spesso dalle stesse forze di polizia. Ma anche i californiani poveri, quelli che possiedono ben poco, odieranno i nuovi venuti, appellandoli con disprezzo “okies”, sebbene non provengano solo dall’Oklahoma ma da varie nazioni del Midwest, dove la classe agricola è rovinata dall’avvento dei trattori.

John Steinbeck racconta di queste persone, racconta di questo popolo, e lo fa alternando capitoli in cui descrive il fenomeno con tono giornalistico e partecipe al tempo stesso e capitoli in cui i membri della famiglia Joad affrontano come possono l’esodo e le sue sofferenze.

Furore è un capolavoro della letteratura americana. Vendette quattro milioni e mezzo di copie fra il ’39 e il ’40, valse all’autore il premio Pulitzer, di certo contribuì a sollevare un vespaio e a smascherare l’America benpensante che trattava i propri simili come feccia.

Tom Joad appare il protagonista, lo sembra, eppure forse non lo è… Tom è il figlio che torna dal carcere, dove è finito perché durante una rissa ha ucciso un uomo per difendersi. Ha scontato quattro anni e ora raggiunge la sua famiglia e la trova sfollata – i trattori sono stati mandati a distruggere la casa perché i Joad non se ne volevano andare – e sul piede di partenza. Nell’andare incontra Casy, l’ex predicatore, che sarà l’anima pensante del romanzo, colui che riflette, trae conclusioni, guarda e conserva nel cuore, confrontando tutto con la propria sete di giustizia e d’infinito. Quello che non vorrebbe più pregare, per una sorta d’onestà nel riconoscersi peccatore, perché dubita che lo Spirito scenda a comando alla fiamma delle sue parole, ma che si ritrova a farlo, nonostante tutto.

Ma nell’evolversi della storia la protagonista diventerà la madre, Ma’, che no, non ha nemmeno un nome, però è quella che regge tutto, che tiene unita la famiglia lottando con le unghie e con i denti, che deve resistere per Pa’, per Noah, per Tom, per Al, per la figlia incinta, per i due figli piccoli, per lo zio John sempre sull’orlo della resa. Ogni personaggio ha un carattere e un vissuto precisissimi, rilevati. Il viaggio prosegue fino alla meta, che, come il lettore si aspetta, visti i numerosi segnali distribuiti lungo la narrazione, non corrisponde a un lieto fine.

Steinbeck, però, non è ideologico, perché descrive sì il razzismo e la violenza che feriscono al cuore gli Stati che tanto Uniti non sono, ma delinea anche il senso di appartenenza che unisce gente sconosciuta e misera, ma disposta a riconoscersi una dignità intoccabile. Furore parla di anima, di famiglia, di popolo, persino di uno Stato capace di fare campi in cui gli sfollati possano avere un lavandino e un gabinetto, di persone in grado di autogestirsi per il bene comune, a indicare quella possibilità positiva della democrazia che affonda nella buona volontà umana. Questo con tutto che gli uomini restano carnali, sbagliati, peccatori, diabolicamente tentati di dividere quello che è unito. L’autore tratteggia tutti con una capacità di intaglio che rimane impressa.

La forza della scrittura, ecco quello che ti comunica Furore, un forte impulso a fare la cosa giusta nell’aver deciso di raccontare proprio quella storia lì; la perizia puramente narrativa, il rilievo dell’approfondimento psicologico che si nutre di gesti, di poche parole, della descrizione di un ambiente che è personaggio insieme agli altri. Steinbeck infatti in determinati punti stacca su un animale spiaccicato per la strada, su una tartaruga che, contro ogni impedimento – proprio come farà la famiglia Joad –, continua imperterrita verso la sua meta, su un gatto vagabondo che sfiora la manica di Tom, su un campo che si allaga per le piogge, a simboleggiare gli eventi che travolgono i fragili tentativi degli uomini di resistere alla sorte. Il narratore è dappertutto, equamente guarda, svela, palpita.

La famiglia Joad non riuscirà a restare unita. Nonostante la tenacia di Ma’, gli anziani muoiono, i giovani meno motivati vanno per la loro strada, spaventati forse, residui lasciati sulle rive dalla fiumana del progresso di verghiana memoria. Anche Tom è costretto a lasciare il gruppo. Qual è il fulcro del romanzo, dunque?

Ho guardato un video su YouTube con uno spettacolo di Alessandro Baricco, molto bello: molta lettura e tutto sommato spiegazioni contenute e significative. Lo scrittore sottolinea come il punto focale, quello in cui si illumina la visione di Steinbeck, sia quello di Casy, l’ex predicatore.

“Ho pensato allo Spirito Santo e al cammino di Gesù. Ho pensato: ‘Perché dobbiamo metterlo con Dio o con Gesù? Magari,’ ho pensato, ‘magari sono tutti gli uomini e tutte le donne che amiamo: magari è questo lo Spirito Santo… lo spirito umano… tutta la baracca. Magari tutti gli uomini messi insieme fanno una grande anima e ognuno di loro è un pezzettino’. E allora me ne stavo lì a pensarci, e all’improvviso… ho capito. L’ho capito proprio dentro di me, e da quel momento sono sicuro ch’è vero.”

Ecco, secondo Baricco è questa la visione del romanzo: una sorta di religione dell’Umanità. Penso che lui abbia ragione, eppure due sottolineature mi colpiscono e vorrei aggiungerle: in un articolo del 1952 intitolato I Am a Revolutionary, Steinbeck scrive:

«La rivoluzione più grande e più stabile che si conosca ha avuto luogo quando tutti gli uomini hanno finalmente scoperto di avere singole anime, importanti nella loro individualità. […] Questo concetto ha cambiato in modo permanente la faccia del mondo, [per cui] nessun sistema di polizia e di condizionamento può sopravvivere a lungo.»

Ecco, questo – storicamente parlando – è un portato della rivoluzione religiosa giudaico-cristiana, e Cristo è l’incarnazione di questa certezza di valore, e la sua Resurrezione ne è l’inveramento. Per tale motivo, il motore di tutto, la possibilità innegabile della speranza è ontologicamente fondata sul Cristianesimo, per quanto esso appaia ripudiato nella declinazione delle varie professioni religiose. Questa umanità con l’iniziale maiuscola, quella di Ma’, quella semplice degli Joad, ha dentro talmente tanta stoffa cristiana che la trasuda, e per essa riconosce il male, quando lo vede, con una saggezza infallibile. Questo aspetto è fra l’altro anche l’unico motivo per cui questo libro può NON abbattermi.

Il secondo elemento è che la cartina al tornasole dei concetti su espressi, la loro prova del nove, è il fatto che Tom e Casy, i portatori di una visione precisa, semplice ma incisiva, pensata, riflessa, a un certo punto scompaiono, e sulla scena rimangono Ma’ – Pa’ e zio John sono due figure desolate sullo sfondo – e Rosasharn, la sciacquetta devastata dalla scomparsa del marito con cui aveva costruito sogni per il futuro, apparentemente annientata dal suo bambino che nasce morto.

L’ultima scena è talmente forte che lascia attoniti: la famiglia Joad non ha più nulla, non ha idea se sopravvivrà all’inondazione, approda in un punto che le acque non hanno coperto e trova due vagabondi disperati come loro, anzi più di loro, dato che il ragazzo ha compreso che suo padre sta morendo di fame, non mangia da sei giorni perché – e lui lo ha capito troppo tardi – gli dava le proprie razioni di cibo. Ma’ guarda la figlia, col suo seno gonfio di latte inutile, e quella capisce: con quel latte salverà la vita dell’uomo. L’ultimo momento del romanzo è il sorriso misterioso di Rosasharn mentre nutre quell’uomo impoverito dalle circostanze e dalla crudeltà umana, il futuro, in qualche modo l’umanità stessa.

Perché occuparsi del primo sconosciuto sofferente, anzi dell’ultimo di una lunga serie, affinché non muoia? Una voce pratica dice: perché la figlia coi seni gonfi di latte avrebbe sofferto, una voce più vera dice: perché l’altro vale infinitamente, quanto vali tu, quanto vale “la singola anima, importante nella sua individualità”, contro qualunque potere voglioso di schiacciarla e di ridurla a fattore numerico a scopo di profitto.

Riassumiamo: Furore è frutto di un lavoro di cinque mesi, di una trattativa con una casa editrice (la Viking), e partiva da una serie di reportage giornalistici che l’autore aveva scritto. Steinbeck voleva scrivere il “romanzo americano” e l’ha fatto, ha avuto un successo assoluto e improvviso, è stato adottato e odiato dalle destre e dalle sinistre. Steinbeck ha usato uno stile semplice – con il parlato del popolo a stento alfabetizzato – tanto che in seguito, con i testi successivi, fu un po’ snobbato dalla critica che presupponeva l’equazione cultura=complessità espressiva e formale. Contestò di non essere un “realista”, ma di volersi piuttosto occupare dell’uomo, di quel che è proprio dell’umanità.

Scrive Luigi Sanpietro, nell’introduzione all’edizione integrale tradotta da Sergio Claudio Perroni per Bompiani: “Scrittore sui generis anche come inviato, Steinbeck non viene solitamente incluso tra i precursori di quel modo di raccontare che si sarebbe affermato come New Journalism. E questo perché, rispetto agli esponenti di spicco del movimento, Steinbeck non va nella direzione di un iperrealismo documentario, inteso a sorprendere il lettore con le sue rivelazioni formali, ma fornisce invece documenti a sostegno di ciò che dentro di sé qualsiasi lettore riconosce da sempre come buono e autentico”.

Ora, quale lezione traggo dall’aver approcciato questo classico?

Io penso che un libro non deve per forza inseguire le tendenze editoriali, essere tagliato come un vestito sulle esigenze dei lettori, trovare l’ultima soluzione stilistica per stupire il solito mucchietto di intellettuali autoreferenziali. Deve essere “urgente”, invece, deve avere una necessità infissa come una spina dentro l’autore, che si specchia nella necessità dei lettori.

Così “ciò che dentro di sé qualsiasi lettore riconosce da sempre come buono e autentico” è questa stoffa profonda, uguale in ciascuno, che ha bisogno di risuonare, e che nessuna circostanza estrinseca – vicissitudini editoriali, stato della narrativa, ecc. – può negare.

Quindi, cosa posso augurare a me stessa e a voi, se non di poter leggere e scrivere – e magari editare – storie così?